Enos Rizzi
La magia del colore e della materia
Mezzo secolo di pittura
A cura di Gianfranco Ferlisi
Dal 19 ottobre al 17 novembre 2019
Orari apertura: sabato e domenica dalle ore 10 alle 12 e dalle 15 alle 18
Vernissage sabato 19 ottobre 2019 alle ore 17
Palazzo Menghini (Via Cesare Battisti 27 – Castiglione delle Stiviere)

Mostra Enos Rizzi Castiglione delle Stiviere (MN) 2019Seguo da molti anni l’attività di Enos e ho sempre incoraggiato la sua capacità di realizzare, in raffinate fluenze emotive, uno sviluppo materico astratto, in un esercizio costante di ricercata levità e di grande capacità tecnica.

Perché l’orizzonte culturale della vicenda di Enos resta comunque quella sorta di informale morenico nato sulle spoglie del Chiarismo Mantovano, a Castiglione delle Stiviere. Oreste Marini, nel dopoguerra, suggeriva ai suoi migliori discepoli di confrontarsi con soluzioni pittoriche nuove, ché i tempi erano radicalmente cambiati. E proprio nella direzione di queste nuove soluzioni pittoriche Enos cominciò la sua libera avventura estetica.

Ho sostenuto spesso la necessità dei suoi percorsi più arditi sulla linea della poetica del frammento,
dei prelievi dalla quotidianità, con materiale segnato da altre vite, da svariate vicissitudini che l’hanno reso materia non più nobile, con l’uso di brandelli di pagine cartacee e non, con un dialogo continuo coi linguaggi pittorici più aggiornati.

Ma stavolta è necessario parlare del pittore a trecentosessanta gradi, di un pittore che talvolta si trasforma in poeta e viceversa, di un artista in cui si sono intersecati e si intersecano pratiche artistiche dissimili, al di là di qualsivoglia gerarchia intellettuale e tecnica.

Emergerà così, ed è ciò che spero, un uomo indipendente nel dipingere, nell’agire e nell’esprimere, in immagini di ispirata suggestione, non tanto e non solo ciò che ha visto ma ciò che, vedendo, ha reinventato a partire dai suoi giovanili paesaggi castiglionesi.

Credo che così affiorerà un racconto più chiaro e completo sulla sua persona. Per tutto ciò (ma anche per molto altro) è importante soffermarsi stavolta sulle oltre centoventi opere di una antologica in cui Enos parla innanzitutto della sua attrazione per le colline e le terre di Castiglione, della sua nostalgia della pittura dei suoi primi maestri, del senso religioso che egli riconosce ai luoghi in cui è nato, dello smarrimento negli orizzonti di colline pietrose e nell’infinito della loro dimensione.

Una speciale condizione dell’essere emerge e si fonde coi luoghi, crea transumanze del fare e del sentire, porta in scena il teatro di passioni che determinano le realtà delle sue e persino nelle nostre visioni.

Enos ha dipinto e dipinge ancora paesaggi e ciò è naturale, perché con Enos si tocca la seconda generazione del Chiarismo Mantovano, quella che traghetta il fare estetico da una rappresentazione naturalistica a declinazioni astratte.

La forma e il colore del paesaggio si sono trasformate, progressivamente, nel silenzio di una materia nelle cui luci aleggia la percezione della solitudine e la testimonianza di un percorso in cui all’arte si chiedono idee, concetti, avventure nella sperimentazione di materiali abbandonati, per poi manipolarli attraverso l’atto poetico della creazione artistica.

L’antologica narra della svolta dei suoi primi collage degli anni Settanta, di come si siano materializzate stesure pittoriche costruite con una sostanza vivente (i manifesti) che Enos recuperava dalla cultura urbana della promozione pubblicitaria, per restituirla in forma di quadri la cui lettura resta, ancora oggi, inquietante e ispirata. Facile richiamare alla mente gli esempi di Villeglé e Rotella e le considerazioni comuni elaborate insieme a Danilo Guidetti.

Le tracce delle immagini massmediali, erano allora, in ogni caso, indizi certi di un desiderio precoce di potenziamento di valori emozionali alternativi. I piccoli strappi di manifesti erano però semplice materia cromatica.

Enos non riproponeva infatti l’affiche tale e quale o appena lacerata dal caso. Egli ricercava solamente una alternativa alla sua tavolozza da pittore.

Enos ambiva dunque a dare vita a composizioni con particelle di cellulosa, con segni smembrati, con lettere e parole isolate, per sottrarle all’oblio, al destino di corruzione e di rapido deterioramento: all’inevitabilità della morte.

Contemporaneamente il periodico ritorno al paesaggio dimostra che la creazione artistica non si basa su calibrate ragioni logiche e percorsi lineari. Una incontenibile nostalgia nella pittura e per la pittura affiora come un pendolo per ricordaci che la nostra storia ci condiziona e ci aiuta a crescere nella sfida con la creatività.

Ho pronunciato la parola nostalgia che non rappresenta assolutamente una condizione negativa. È forse il caso di rispolverare allora le parole di Heidegger: «che cos’è l’uomo se, nel fondo della sua essenza, filosofa e che cos’è questo filosofare? Dove vogliamo andare? Siamo forse un giorno casualmente incappati nell’universo? Novalis afferma che la filosofia è propriamente nostalgia […]. Essa non è una disciplina che si apprende. Le scienze nei suoi riguardi non sono che serve. L’arte e la religione, però, sono sue sorelle […]».

Enos, artista filosofo, asseconda ancora oggi questa nostalgia. Enos riflette e si diverte e intanto scrive con scure tracce calligrafiche mentre la memoria dei suoi paesaggi si distende, incontenibile, anche su ingialliti fogli da spolvero che, nel tempo, hanno sostituito i manifesti e sulle tavole di registri sottratti a un’età remota.

Mentre carezza la materia di raggrinzite carte inchiostrate, mentre segue la sequenza delle ferite degli strappi, mentre pensa al posizionamento di ritagli e sbrindelli, periodicamente la mano rinnova e sperimenta, fertilmente creativo, il connubio del fascino della materia sommato al carisma inesauribile dei colori e delle luci della rappresentazione.

Tra i vari frammenti delle carte si posano schizzi di pennellate mai dimenticate, memorie di rappresentazioni mai del tutto metabolizzate. Le vecchie carte, scorie di ricordi di soffitte svuotate e ripulite, i fogli recuperati dai rimasugli di chissà quali istituti d’arte, ripropongono, di per sé, spaesanti immagini figurali.

Ma la pittura (la sua pittura) si deposita come un tassello di un esercizio obsoleto ma incontenibile sulle antiche superfici sbiadite, sui partitari annotati da contabili innocenti, sulle molte materie della più diversa natura che si ibridano, di volta in volta, con tracce di colore.

È il suo un gioco irriverente, composito, articolato, ibrido, bizzarro e meticcio. E il discorso estetico procede cavalcando il concetto di impuro, mentre le materie di Enos trovano sempre più la loro ragion d’essere nelle inedite strutture sintattico/estetiche cui danno forma, nella riappropriazione della riproduzione del reale come avanzo del suo antico saper fare.

La superficie si organizza in un impeto espressivo che rimanda ai rituali ineludibili della composizione poetica, a materiali fisici portatori di una loro aura che, nell’amalgama, si trasformano in significanti aperti a molteplici significati, alla varietà caotica con cui portano in scena ignote icone.

Enos lavora così con i segni piuttosto che con i concetti. Siamo perciò ben oltre la pittura tout court. Ci addentriamo in una pratica che ci porta ai cambiamenti linguistici del dopoguerra, a nuove e inedite declinazioni dell’arte in grado di produrre senso.

Intanto i suoi lavori, come le pagine di un racconto, ci portano sul piano di narrazioni iconiche che hanno avuto uno strano inizio e non avranno una chiara fine.

Le sue opere non hanno solamente avvizzite memorie da riproporre, non appartengono alla suggestione dei décollage e meno che mai a papiers collés di ascendenza cubista o surrealista.

Parlano ovviamente della trasgressione dei generi codificati, a cominciare dalla pittura; parlano della stretta relazione tra opera e oggetto d’uso che deriva da molteplici ricerche artistiche del Novecento, parlano soprattutto di cinquant’anni di un’attività creativa che scorre ancora con la forza felice di un torrente: sono infatti cinquant’anni che la sua arte si affida alla certezza che esiste un felice approdo finale, perché l’artista guarda con fiducia a tutte le cose che lo circondano.

Enos appartiene non a caso alla genia di quegli artisti che cercano di portare a galla, a tutti i costi, la propria interiorità, scandagliando senza remore l’impulso creativo individuale.

La sua trasgressione e il suo riutilizzo dei codici della figurazione viaggia parallelamente all’imperativo della ricerca della sua identità estetica.

Non avrebbe dunque senso parlare di riferimenti a Rotella oppure a tutti gli affichistesfrancesi. L’arte ha tanti segni e tante dimensioni e ogni artista vero esprime un piccolo o grande seme di originalità, che va riconosciuta e valorizzata in modo differenziato.

L’originalità di Enos è legata alla sua forza di essere sia un creatore d’immagini sia un poetico comunicatore. L’atto comunicativo, infatti, appartiene a tutti gli esseri parlanti ma, come spiega De Saussure, solo nei termini di «Langue», cioè di un sistema comune di significati e significanti e di riferimenti condivisi.

Ben diverso è possedere e usare la «Parole», il linguaggio individuale, personale, specifico e colorato di originalità, che solo pochi possiedono veramente. È la «Parole» che caratterizza il poeta, lo scrittore, l’artista, colui che riesce a dare alla propria comunicazione un’impronta speciale, una funzione emotiva ed estetico/espressiva. E se è vero che nessun atto comunicativo può escludere (almeno in parte) la «Langue», il prezioso patrimonio collettivo comune, è anche vero che esiste una particolare capacità di alcuni di utilizzare la «Parole», a volte intenzionalmente e a volte istintivamente.

A questa singolare capacità comunicativa, che va oltre il comune patrimonio linguistico, Enos Rizzi attinge nelle sue modalità di espressione, quelle del messaggio d’arte, quelle che rispondono ai tre grandi criteri dell’autenticità artistica contemporanea: l’interiorità, l’originalità e la singolarità. E sono proprio queste caratteristiche che lo hanno accompagnato in mezzo secolo di esperienze artistiche e che danno ora conferma di una continuità di vocazione inesauribile.
E a me che ora osservo le superfici delle sue opere e le suggestioni che ne scaturiscono, si profila con evidenza la ri-scoperta di un artista sempre più maturo, creatore di immagini sempre più poetiche, di un nesso sempre più evidente tra pensiero ed anima, di un’atmosfera sempre più carica di sapienza, di sensibilità creativa e d’intensità vitalistica.

A questo punto, dopo queste brevi note critiche, non resta che lasciare spazio alle opere: saranno quelle a dare un senso definitivo alla capacità dell’artista di esprimere la sua visione del mondo, costruita con i ricordi, con le emozioni e con la fantasia ed espressa grazie all’esercizio antico di una manualità che appartiene solo alla passione dell’autore, alla sua ricerca costante di nuovi colori, di nuove elementi, di nuovi equilibri, di nuove dimensioni, di nuove poesie da raccontare.
Il talento di un artista è già di per sé un dono, e un ulteriore dono è quello che fa l’artista al suo pubblico condividendo questo dono tramite le sue opere.

È sufficiente alla fine accogliere l’invito di Enos Rizzi ad entrare nel suo privilegiato e articolato universo, nelle tante stagioni e nei diversi cicli del suo operare per trovarsi, come avvenne ad Alice, in un mondo di meraviglie, attraverso e al di là di uno specchio capace di trasformare la realtà in una magica ed immaginifica avventura tra astrazione e poesia visiva, tra assemblage ed environment.




Scritto da: Gianfranco Ferlisi
Data: 11 Ottobre 2019
Categoria: Mostre
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